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Archive for the ‘tutorial di Matteo Capaia’ Category

di Matteo Capaia

Ho finalmente trovato un po’ di tempo, per chiudere per quanto prima, il capitolo riguardante le mie osservazioni su alcune caratteristiche delle pellicole Impossible Project, iniziato lo scorso Febbraio, “viraggi del colore e galassie in avvicinamento #1″.
Le fotografie mostrate in questo secondo post, sono state acquisite mesi fa e in questi giorni ho riacquisito le stesse per avere un idea della resa temporale, dopo essermi preoccupato di averle ben conservate. Mi sembrava corretto far passare una discreta quantità di tempo (e soldi), per descrivere delle variazioni significative.

Oramai si è discusso fino alla noia di cosa si riesce o non si riesce a ottenere con queste pellicole, così amate e allo stesso tempo bistrattate e siccome, per quanto mi riguarda, non ne posso più di sentir parlare dei troppi difetti, eccessivi costi in rapporto alla riuscita degli scatti, uso artistico, bande diversamente esposte, Pod difettivi e porzioni mancanti, funghi porcini etc, etc, dò il mio piccolo contributo pubblicando alcuni miei risultati, cercando di essere il più onesto e imparziale (Im)possibile.
E chi si è visto si è visto.

Premessa: Le condizioni di conservazione sono state le medesime per tutte le fotografie di questo post e le scansioni sono state eseguite, come al solito, al meglio delle mie capacità, con gli strumenti che ho a disposizione.

Nota bene: Se si notano alcune differenze, nei livelli di luminosità delle cornici è solo perchè non ho avuto tempo e voglia di correggerli, l’importante era la visualizzazione il più fedele possibile dell’immagine al suo interno, confrontata con l’originale, illuminata uniformemente con una sorgente di luce alogena. Visualizzo le fotografie su un Monitor Apple calibrato e correggo le immagini scansionate con profili colore Adobe RGB(1998).

Tutte queste istantanee sono state impressionate con fotocamere folding Polaroid sx70 e slr680, senza l’ausilio di flash, usando luce al tungsteno oppure luce naturale e con un range di temperature comprese all’incirca tra i 10-25°C.

Elenco di seguito i tipi di pellicola da me provati, escludendo le ultime arrivate px125 color shade, che non ho ancora usato e quelle della serie PZ, siccome non possiedo il sistema Spectra.

PX100 e PX600/UV+ (06)
Tra tutte le pellicole Impossible, le monocromatiche sono sempre state le mie favorite; purtroppo ho subito danni consistenti con queste ultime. Molte istantanee carine, che potevano essere considerate accettabili per qualche progetto, non possono più essere presentate essendosi deteriorate; ne rimangono solo le copie digitali, che di certo non possono avere lo stesso peso delle originali. Tra l’altro, dopo qualche tempo non ho potuto più recuperale trasferendole su carta, a causa dell’invecchiamento della chimica di sviluppo.

Alcuni risultati che ho ottenuto con le px100:

prima

dopo

(altro…)

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di Matteo Capaia
Ebbene si, sto attraversando un periodo di negatività, ma non è come potrebbe sembrare!
Lavorando sul materiale istantaneo prodotto in questi mesi, con le mie fotocamere folding, mi sono imbattuto in un inatteso, quanto interessante sviluppo.
Sapendo della possibilità di recuperare i negativi, da alcuni tipi di pellicole Polaroid e Fuji, da perfetto principiante, mi sono costantemente applicato e il risultato dei miei esperimenti si è finalmente concretizzato in un esotico matrimonio, tra il mondo analogico istantaneo appena scoperto e quello digitale già conosciuto, nel quale sono un eccitato testimone, ansioso di espandere le proprie capacità creative.
Soprattutto per quanto riguarda il trattamento dei film Impossible Project, dei quali negativi, forse per ignoranza, non ho ancora vista nulla in giro.
Alcune di queste elaborazioni, mi hanno dato grande soddisfazione e hanno fatto colpo su chi ha visitato la mia galleria virtuale; per questo motivo, ho iniziato a pensare a un progetto che forse mi permetterà di sviluppare in grande e mostrare le mie fotografie sotto una luce diversa, anche a chi, non mastica istantanee tutti i giorni.
Poco importa se qualche “purista” alzerà la mano e dirà: “Io sono contrario a questo matrimonio!”.

Ho recuperato, dunque alcuni tipi di negativo:

Recupero negativi Polaroid Type 100, blue
In realtà non sono dei “veri” negativi, in quanto l’immagine impressa, non deve essere successivamente invertita; è già positiva, sebbene molto scura.
Questo tipo di pellicola si presta molto bene allo scopo; la particolare trama a nido d’ape, presente sulla superficie della pellicola e i toni pastello rilasciati sul negativo, conferiscono durante l’elaborazione, un piacevole effetto pittorico, che personalmente ricerco in questo tipo di fotografie.
Ad esempio:
I gozzi di Camogli, negativo crudo
I gozzi di Camogli, elaborazione finale
Altro esempio:

Ulivi, negativo grezzo
Ulivi, elaborazione finale
Come confronto di resa finale:

Camogli, positivo originale
Camogli, elaborazione finale.

La mia “vocina” mi suggerisce che è meglio il negativo!

Recupero negativi Impossible Project, monocromatici
Grande sorpresa, è stata l’elaborazione di alcuni negativi  di pellicole  px600 UV+ e px100.
Dopo aver praticato con successo, due trasferimenti di immagine, ho immediatamente pulito i negativi, i quali hanno perso con relativa facilità la pasta bianca che li ricopriva, ottenendo due immagine veramente pulite e nitide.
Ad asciugatura ultimata, senza alcun trattamento ho scansionato le immagini:

Orazio, negativo crudo di px600 UV+

Il negativo ottenuto è  sorprendente, a mio parere supera  in risoluzione il corrispondente positivo e dopo l’acquisizione, invertendo i colori,  ho ottenuto dei toni veramente interessanti.

Orazio, elaborazione finale
A parte l’ottimo volto di Orazio, che ringrazio per la pazienza nel sottoporsi a estenuanti esperimenti fotografici, è uno dei miei ritratti più riusciti!
L’immagine originale era discreta ma non mi soddisfaceva, mancava di impatto e tra l’altro il positivo presentava un artefatto di esposizione fastidioso (una banda laterale sottoesposta, problema di gioventù di alcuni film Impossible).
Grazie al recupero del negativo, privo del difetto, ho ottenuto un risultato decisamente migliore; come valore aggiunto, le macchie comparse durante il lifting della pellicola, hanno restituito una sorta di  tridimensionalità all’immagine.
Altro esempio:
Finestre, negativo crudo di px100

In questo caso, il negativo era meno pulito del precedente; vi erano molte macchie  sulla superficie, quindi  l’ho elaborata e convertita in scala di grigio, per eliminare tali difetti:

Finestre, elaborazione finale
Anche in questo caso, pur avendo ottenuto un buon trasferimento, con il negativo digitalizzato, ho ottenuto un risultato superiore.
Non tutti i negativi, comunque vengono puliti allo stesso modo; ho capito che prima si agisce nella separazione della pellicola e meglio si ottengono i negativi, dopodichè a volte, è necessario un pò di restauro digitale.  Meglio ancora se gli scatti sono freschi, cioè esposti su film, appena aperti dalla confezione.
In caso di negativi molto sporchi, ho potuto ottenere conversioni di questo tipo:

Ritratto di Mamma, negativo non ancora finito

Nota: nell’immagine sopra, aree molto scure, come ad esempio la maglia nera e alcuni dettagli, danno nel  negativo, aree prive di dettaglio e solarizzate. Interessante!
Come esempio, per un confronto di resa finale:

Orchidea #1,  positivo originale
Orchidea, elaborazione finale.

Preferisco il negativo.
Un punto in più, per Impossible Project!
Con le pellicole  px70 color push, non ho ancora ottenuto alcun risultato, in quanto i negativi a colori sono molto diversi materialmente da quelli appena mostrati e difficili da manipolare. Continuerò a provarci, anche perchè sono curioso di tentare anche con  le nuove px680 ff.

Recupero negativi Fuji FP-100C45
Fantastici risultati con  i negativi di fuji 4×5, che utilizzo per la mia view camera.
Per i negativi giapponesi, uso parte della metodica utilizzata per trattare i negativi di Polaroid 55, solo che all’inizio, occorre rimuovere lo strato nero coprente il retro della pellicola.
Per questa operazione si usa dell’Ipoclorito di Sodio, comunemente chiamato candeggina.
Preparo il seguente necessarie:
Il necessarie
Metto sopra una lastra di vetro, la pellicola a pancia sotto, dal lato emulsionato e sigillo tutti i lati intorno    allo strato nero opaco con del nastro isolante.
Aggiunta dell’Ipoclorito

Con una pipetta da irrigazione, la stessa che uso per avvelenare i miei nemici, copro lo strato opaco condieci millilitri di  l’Ipoclorito di Sodio, (soluzione di cloro al 9%, ulteriormente diluita in acqua 1:2).

Per l’operazione, siccome sin da piccolo mi macchio con una certa facilità, oltre ai guanti da laboratorio, mi sono lasciato addosso solo le mutande, un vero spettacolo!
Il servizio prevenzione & protezione ringrazia.
L’Ipoclorito comincia ad aggredire la superficie. Sfrizz!
Successivamente, dopo circa cinque minuti, con del cotone idrofilo, ho tamponato e rimosso l’Ipoclorito insieme al residuo nero, che oscurava il retro della pellicola.
Nota bene: è molto importante che l’Ipoclorito non raggiunga il lato dell’emulsione, pena un rapido degradamento di quest’ultima.
Comincia ad apparire il negativo, un’altro magic moment!
Ad asciugatura ultimata, ho controllato contro luce la trasparenza perfetta del negativo:
Finalmente il negativo allo scoperto.
A questo punto, dopo aver rimosso il nastro isolante,  ho verificato quanta emulsione era rimasta dal lato protetto.
Con la classica soluzione di Solfito di Sodio, ho rimosso agevolmente, dopo alcuni lavaggi,  i residui dalla superficie, dopodichè ho  risciaquato la pellicola in acqua corrente e  successivamente l’ho coccolata  in un bagnetto imbibente, per ottenere una asciugatura priva di aloni e macchie.
La pineta, negativo crudo.
Il negativo si presenta molto nitido e ricco di dettagli, anche se vi è una mancata corrispondenza cromatica, abbastanza marcata, compensabile con un’oretta di sudore davanti al monitor.
Questa è decisamente la parte più difficile, ma anche la più divertente; non è facilissimo restituire un bilanciamento del colore corretto e fedele all’originale, pur modificando a mio piacimento l’immagine.
Dopo aver ottenuto una buona base, invertendo l’immagine e rimuovendo polvere & company, ho dato via  allo sviluppo:
La pineta, prima elaborazione a colori, un pò “high & bleached”
Una volta ottenuta un’immagine a colori soddisfacente, mi sono sbizzarrito in alcune conversioni di prova, neanche troppo curate, ma d’effetto:
La pineta, elaborazione provvisoria in bianco e nero
Rispetto all’immagine originale, sicuramente ho perso un pò di informazioni nelle zone di luce, (ciò è in parte dovuto alla scansione effettuata in trasparenza a 1200dpi, con un scanner piano semi-professionale), ma ho guadagnato dettaglio, nelle zone di ombra e nei toni medi.
E’ come se il negativo fosse esposto 1+1/2  stop in meno.
Eseguendo una scansione meno luminosa, comunque, si possono recuperare i dettagli sovraesposti.
Come confronto di resa finale:

Orazio #1,  positivo originale
Orazio #1, elaborazione finale

Anche in questo caso, preferisco il negativo; lo sfondo mi distraeva dall’espressione incognita di Orazio e da quello che avevo in mente per lui.
Si può sempre ottenere di meglio, ma con i mezzi a mia disposizione, posso decisamente accontentarmi!

Stampate sul giusto supporto, per esempio su un 30 x 40 in carta baritata o in fibra di cotone, la resa di queste elaborazioni è ottima.
Ma è solo gusto personale, ben venga la critica.
Con questi negativi e quelli di Polaroid 55* che devo ancora usare, non vedo l’ora  di provare in camera oscura delle stampe a contatto, ma questo è un “work in progress”.
Matteo Capaia

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di Matteo Capaia

Dopo circa un mese di scatti felici, durante un giro esplorativo con la mia amata due e mezzo, due foto uscite in sequenza, completamente scure, mi hanno fatto presagire che alla macchina fosse capitato un problema molto serio.

Sudori freddi.

Non sentivo più scattare l’otturatore secondario.

In mezzo a un gruppo di curiosi, con qualche parolaccia di troppo, ho cambiato le batterie e ho tentato una prima disperata rianimazione ; niente, la macchina era silente, possibile che fosse morta dopo così poco tempo passato insieme?

Con tutta la fatica che avevo fatto per averla e per rimetterla in sesto.

Colto da un picco di rabbia, pensavo di finirla con un glorioso lancio dall’alto dei trenta metri del ponte monumentale, ma visto la distanza dal ponte, camminando, mi sono calmato e non  rassegnandomi all’idea di perderla, ho deciso di riportarla a casa per operarla d’urgenza.

Dovevo, purtroppo, smontare la macchina e vedere cosa diavolo fosse successo.

L’otturatore secondario non dava più  segni di vita  e ciò poteva dipendere principalmente da tre cose:

1)    era un problema elettrico, non arrivava corrente al circuito

2)    era un problema meccanico, tipico degli over-quaranta

3)    come C. Bukowsky, tutto era andato a puttane.

Dopo aver messo insieme il kit del “piccolo perito atomico”, ho preparato un incasinatissimo tavolo operatorio e ho messo mani nell’ignoto.

Strumenti del mestiere

Smantellare la testa della macchina è stato facile, così come per Mickey Rourke costruire una batteria atomica a fusione fredda in cantina.

Prima di tutto, dopo aver esteso il corpo macchina, della serie: “stenditi amore, non ti farò male”, ho tranciato il cavo di alimentazione alla sinistra del soffietto.

Visto che non volevo assolutamente staccare il delicato soffietto dalla macchina (con il rischio di sbriciolarlo), per disassemblare il blocco otturatore, ho solo mollato il bullone inferiore e la vite del meccanismo estensibile, (occhio alla molla) , in modo tale, da poter orientare il blocco, insieme al soffietto, nella direzione del cacciavite.

Successivamente, ho rimosso dalla sede il cavo scatto e ho sfilato il perno del telaietto pieghevole.

NOTA BENE: Con un pennarello, ho fatto un segno sul cavo flessibile, per ricordarmi l’esatta lunghezza del segmento di cavo che avrei dovuto, a operazione finita, infilare nuovamente in sede.

Una lunghezza sbagliata, infatti, non permette la giusta tolleranza necessaria ad azionare un dentino interno che fa scattare la leva di scatto interna dell’otturatore.

Rimozione del fermo per il cavo scatto flessibile (occhio al segno rosso) e del perno soprastante.

Rimosse altre tre viti del blocco posteriore,ho tirato via  la faccia della fotocamera (a cui è avvitato il circuito elettronico), accompagnando il cavo di alimentazione fuori dall’occhiello guida del soffietto e dal buco posto nello scudo.

Pannello anteriore del blocco otturatore, disassemblato dal circuito dell'otturatore e meccanismi interni di compensazione dell'esposizione

Circuito dell'otturatore appoggiato al pannello interno del blocco (notare la data di produzione 2-67!)

Una volta visto il circuito stampato, ho apprezzato la bontà della meccanica interna e l’apparente semplicità del progetto.

Faccia anteriore del circuito otturatore

Faccia posteriore del circuito, viteria ed elettromeccanica degli otturatori

Era tutto come nuovo, le molle, i leveraggi e i vari switch elettrici erano perfettamente funzionanti e precisi; l’unico segno del tempo era riscontabile nell’invecchimento del film protettivo del circuito stampato, visibile in una patina biancastra screpolata; poca roba, comunque non vi erano segni di bruciature da corto-circuito, come temevo di scorgere. Buon segno.

Avendo a disposizione il circuito in bella vista, ho preso nota dei componenti elettronici, resistenze, condensatore, diodi e transistor, in modo da sostituirli, se necessario.

Dopo aver dato alimentazione al circuito, tramite le estremità dei cavi tagliati in precedenza, con il tester, ho controllato che la corrente passasse in ogni punto di saldatura del circuito stampato.

Tutti i componenti erano integri, la corrente elettrica scorreva ininterrotta in tutti i punti (facendo un ponte elettrico, ho controllato anche quelli del percorso Flash), tranne in uno.

Era il circuito dell’otturatore secondario.

Infatti, caricando l’otturatore e facendolo scattare, la lamella dell’otturatore secondario non sembrava reagire; seguiva il fratello maggiore senza discutere, senza dirgli “aspetta un attimo che deve passare più luce! Me l’ha detto quel secchione del Diodo!”.

Dopo alcuni minuti di elucubrazioni mentali, caffè, pane e nutella, ho realizzato che per dare continuità al circuito, cioè per far passare la corrente in quel punto, dovevo azionare la leva di scatto continuando a tenerla premuta come se dovessi prendere un’esposizione!

Dopo aver capito un semplice meccanismo, con una punta di plastica ho tenuto premuta la levetta interna ed è partito l’otturatore primario, seguito dopo qualche secondo, da quello secondario.

Con immenso sollievo, la macchina non era morta!

In questo modo, ho capito come funziona il circuito di scatto; dopo aver caricato l’otturatore, una piccola elettro-calamita  viene a contatto con l’otturatore a lamella secondario, che ha un’estremità metallica coincidente con il magnete.

Una volta premuto il pulsante di scatto, per il tempo necessario, il dente di plastica interno al blocco, mantiene unite due lamelle che alimentano il circuito temporizzato che comanda a sua volta la calamita.

Dente di plastica e vista della lente interna

Otturatori rilasciati dopo lo scatto

La corrente elettrica arriva alla fotocellula dell’occhio elettronico (foto-diodo o santo-diodo, a seconda dei casi), dopodichè, tramite un circuito temporizzato a Cù-Cù (comandato da un semplice transistor), la giusta quantità di corrente (proporzionale ai giusti EV di esposizione) toglie alimentazione all’elettro-calamita e viene rilasciato l’otturatore secondario!

Con un riff di Jimmy Hendrix in testa, ho capito dove fosse il problema!

E io che pensavo di dover ricostruire faticosamente il circuito stampato, smontando la radio a transistor della nonna.

Il casino era tutto a monte.

Eppure avevo controllato con il tester i cavi di alimentazione nel comparto batterie; l’interruzione della linea doveva essere tra le batterie e i cavi di alimentazione.

Il problema era proprio lì, a furia di aprire e chiudere lo sportello, con la modifica volante ai porta-batterie AAA, avevo probabilmente schiacciato i fili elettrici e si era spezzata una porzione interna del cavetto negativo, saldato al supporto della batteria originale.

Siccome lo spazio disponibile nel vano è risicato, invece di ricostruire il collegamento originale (peraltro ridondante alla nuova modifica), ho semplicemente rimosso un piccolo supporto di plastica, tenuto insieme al corpo con una piccola vite e ho saldato il terminale negativo delle batterie, direttamente sul cavo di alimentazione.

ulteriore modifica al vano batterie

Avendo tranciato il cavo di alimentazione, ho pensato che fosse comodo ricollegarlo tramite due spinotti fast, in modo tale da poter staccare il circuito batterie nel caso dovessi smontare nuovamente la macchina.

nuovo cablaggio di alimentazione

Approfittando della fotocamera aperta, ho pulito accuratamente la faccia interna delle  lenti, il vetro dell’occhio elettronico e i contatti elettrici, soprattutto quelli attorno all’otturatore e all’elettro-calamita.

Successivamente, ho lubrificato con un cotton-fioc imbevuto di WD-40,  tutti i leveraggi dell’otturatore, controllando la corretta tensione delle due molle, quella di carica e quella di rilascio.

Già che c’ero, con l’aria compressa, oltre a far spaventare il gatto, ho rimosso più di trent’anni di polvere e sporcizia accumulatasi all’interno del blocco otturatore.

In pochi minuti era tutto ritornato alle condizioni di fabbrica.

Come ultima operazione, ho saldato al circuito elettrico, i nuovi terminali di alimentazione e anche un pezzo di dito (un dolore assurdo), proteggendoli da eventuali corto-circuiti con una nuova protezione in nastro isolante, coprente quella originale.

Nuovi cavi di alimentazione e nuova protezione circuito

Dopo aver testato con successo  la macchina, riassemblata provvisoriamente, ho completato il montaggio, serrando definitivamente tutte le viti e curando gli accoppiamenti.

Anche il soffietto che necessitava di una piccola riparazione.

In un altro post si può notare una foto dove compare un alone bianco sopra la mia figura; pensavo fosse un difetto del film, invece la macchia era dovuta alla luce entrante dal foro microscopico, un effetto stenopeico non voluto!

Del semplice nastro isolante nero, si è adattato perfettamente alle pieghe del soffietto, rendendosi quasi invisibile.

Finito.

Pause,  intoppi e imprecazioni permettendo, l’operazione è durata non più di  una giornata, pensavo peggio.

Se avessi pensato, al tempo della modifica, a sistemare meglio il pacco batterie, probabilmente non si sarebbe rotto nulla, ma al tempo stesso, non mi sarei mai avventurato nell’operazione di aprire una fotocamera vecchia di quarant’anni, solo per il gusto di capirne il funzionamento!

E’ stata una esperienza molto interessante; ne ho tratto delle nozioni utili, che magari sfrutterò più avanti per concretizzare alcune idee che mi ronzano in testa, tipo, alcuni trapianti di organo (fotografici intendo).

Tirata a lucido, le ho regalato nuove batterie e un nuovo pack-film ed esibita per le vie del centro, ha ripreso a scattare fotografie, addirittura meglio di prima.

Il platano, Polaroid type 100 Chocolate, scaduta

Fortunatamente, non tutte le complicazioni vengono per nuocere.

Matteo Capaia

http://papayaspoint.blogspot.com

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Non è da molto che è approdato su http://www.polaroiders.it, ma sono bastate poche foto e quel che ha scritto per presentarsi per capire che è uno sperimentatore e che gli piace condividere quel che sa nello spirito di noi polaroiders.

Il suo blog è http://papayaspoint.blogspot.com/ e lì documenta in modo meticoloso i suoi esperimenti su macchine e pellicole e da oggi ci presterà (così come già fa la carissima Silvia Ianniciello) i suoi articoli, per raccogliere qui le esperienze di tutti i polaroiders sperimentatori che abbiano voglia di condividere  metterle a disposizione di tutti i polaroiders che vogliano sperimentare a loro volta.

Gli abbiamo chiesto di dirci qualcosa di sè:

© Matteo Capaia

“Sono Matteo,

parlo un pò di me e del mio ingresso in questo magnifico spazio.

Sono alcuni anni che inseguo immagini con le mie fotocamere, ho cominciato con il digitale e da alcuni mesi, sto percorrendo appassionatamente, un percorso controcorrente verso l’analogico, soprattutto verso quello magico e istantaneo, purtroppo da me guardato in passato, con un pò di ignoranza e sufficienza.

E’ stata una vera rivelazione, una sorta di nuovo inizio, e spinto dall’idea sempre più insistente di raccontare le mie nuove esperienze, ho dato vita al mio piccolo blog, che senza nessuna pretesa, racconta in modo appassionato e leggero,  il mio ingresso nel mondo della fotografia istantanea e di come questo avvicinamento, peraltro un pò casuale,  abbia influenzato in modo esplosivo, il mio modo di esprimermi e di fare fotografia.

Il blog mi aiuta a focalizzare le idee, a ragionare su tutto ciò ho fatto e a raccontare le mie impressioni, che sento di condividere con chi ha voglia e tempo di interessarsi al mio personale punto di vista.

Non mi resta che impegnarmi ancor di più, sperando di portare i miei piccoli contributi in questo magnifico spazio, veramente ricco di talenti, di creatività e di persone innamorate come me della fotografia.

Un saluto a tutti i Polaroiders!”

A breve uno dei suoi tutorial!

Intanto noi di http://www.polaroiders.it ringraziamo Matteo per la disponibilità e l’entusiasmo che ci dimostra!

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